Da ormai molti anni le persone non comprano più un prodotto solo per le sue caratteristiche ma anche per i valori che rappresenta.
In un mondo in cui tutti i prodotti di una certa categoria sono sostanzialmente simili, il consumatore sceglie il brand con cui condivide determinate scelte etiche.
La responsabilità sociale delle imprese non è certo qualcosa di nuovo e con il passare degli anni l’attenzione generale verso tematiche sensibili cresce costantemente. Per questo sempre più aziende si spendono su diversi fronti per migliorare il proprio impatto ambientale e sociale. Non è raro vedere un brand sostenere cause di vario genere, adottare politiche per migliorare la vita lavorativa dei propri dipendenti e/o impegnarsi per aumentare la propria sostenibilità.
Gli standard ai quali i brand devono uniformarsi però diventano sempre più alti.
I consumatori, soprattutto quelli più giovani (millennials e gen Z) si aspettano che le aziende prendano posizione su quelle che sono le tematiche più in voga del momento. Insomma “schierarsi” sembra essere ormai inevitabile e una comunicazione piatta e generalista non funziona più. È per questo che le aziende sentono sempre di più il bisogno di comunicare il proprio impegno sociale.
In questo scenario troviamo:
- Aziende che sono impegnate già da tempo in determinati settori e che attuano politiche di un certo tipo da anni;
- Brand che decidono di fare dei cambiamenti effettivi per migliorare la propria responsabilità sociale;
- Aziende che vedono certe tematiche come semplici trend passeggeri e cercano di sfruttarli a scopi di marketing.
In questo ultimo caso, quello di aziende che cercano di “darsi una tono” per associarsi ad una causa di interesse sociale, è stato creato il concetto di “[qualcosa] washing”. Abbiamo così:
GREEN WASHING = tutto ciò che è legato a cause ambientali
PINK WASHING = ciò che riguarda le lotte femministe o l’empowerment femminile
RAINBOW WASHING = cause legate al gender e alla comunità LGBTQ+
BODY POSITIVITY WASHING = tematiche riguardanti l’accettazione di qualsiasi tipo di corpo
Esprimersi su tematiche importanti e divisive non è per niente semplice e spesso il commitment ad una causa fa la differenza.
- Le aziende i cui valori coincidono con una determinata battaglia tendono ad attuare progetti a lungo termine che impegnano tempo e risorse.
- Chi invece abbraccia una causa solo per vendere di più spesso lo fa con superficialità, magari saltando da un trend all’altro.
In questi casi è facile assistere, se non a dei veri e propri scivoloni, ad una comunicazione poco convincente e piuttosto forzata.
Un po’ come quando diciamo che un piatto ci piace solo per non offendere il padrone di casa.
I BRAND CHE CI CREDONO
Quando un’azienda è davvero dedita ad una causa quest’ultima permea l’intera cultura aziendale e si riflette su tutti i livelli.
Se guardiamo la mission dell’azienda che produce il detersivo Winni’s leggiamo che:
“La Mission dell’azienda è quella di creare prodotti di qualità nel rispetto dell’ambiente. Da sempre siamo convinti che… non si possa prescindere dall’investire in Ricerca & Sviluppo mirando sempre alla qualità e all’innovazione.”
La volontà di preservare l’ambiente è chiaramente esplicitata già nella prima frase e si ritrova in tutto il ciclo produttivo che include organizzazione degli impianti, materie prime, test di laboratorio etc.
Non è raro vedere che questi brand adottano politiche di lungo periodo e si impegnano in programmi pluriennale che prevedono investimenti di svariati milioni.
Da più di 15 anni IKEA produce un “bilancio di sostenibilità” in cui dettaglia i risultati raggiunti dai suoi programmi e gli obiettivi futuri. Inoltre nel 2019 l’azienda ha messo in campo un investimento da 200 milioni di euro per migliorare il proprio impatto ambientale.
Allo stesso modo Dove, dai primi anni 2000, porta avanti un vero e proprio progetto che promuove lo sviluppo dell’autostima e la body positivity. Il concept di tutta la strategia recita : “We want to make women feel comfortable in the skin they are in, to create a world where beauty is a source of confidence and not anxiety”.
Con campagne come “Real Beauty Sketches”, “Real Beauty” e “The Perfect Real Body” Dove ha sempre cercato di promuovere l’idea di una bellezza naturale lontana da schemi, imposizioni sociali o canoni prestabiliti.
Recentemente l’azienda ha portato la questione anche nelle scuole con il progetto “Dove Self Esteem Project” votato a combattere i problemi legati alla percezione di se, soprattutto tra i giovani.
I BRAND CHE CI PROVANO
I motivi per cui un brand sposa una determinata causa possono essere dovuti alle scelte etiche della dirigenza, alla pressione sociale o a considerazioni prettamente economiche (es. passare al fotovoltaico è conveniente sul lungo termine).
Il cambio può avvenire in qualsiasi momento della storia aziendale (certo, prima è meglio è) ed è sempre un qualcosa di positivo.
Spesso la spinta a “premere l’acceleratore” su una determinata causa è data dalla coincidenza tra valori aziendali preesistenti e un trend sociale emergente.
Nike nella sua mission dichiara che “vuole portare ispirazione ed innovazione a tutti gli atleti del mondo” aggiungendo che (e questa è la vera forza del messaggio) “chiunque abbia un corpo è un atleta”.
L’affermazione di Nike è estremamente inclusiva e di conseguenza non ci stupisce che il marchio si schieri per la body positivity scegliendo testimonial plus size o con handicap fisici.
Le polemiche del 2019 sui manichini plus size o gli insulti sotto ad alcuni post social, che ritraggono modelli “non standard”, sono abbastanza sterili. Nike non cavalca un trend in ascesa ma ha sempre incoraggiato l’attività sportiva da parte di tutti.
In questo periodo Levi’s sta svolgendo una campagna che invita a fare acquisti più oculati e utilizzare più a lungo i propri vestiti.
Uno statement in aperto contrasto con il mondo della moda fast fashion.
Il messaggio e l’impegno di Levi’s risultano credibili poiché il jeans è un materiale durevole quindi in linea con un utilizzo prolungato.
L’azienda inoltre ha schierato un team di testimonial di tutto rispetto. Sono attivisti noti, sui social e non, per il loro impegno in favore della sostenibilità ambientale. L’endorsement da parte di questi attivisti non può che conferire ulteriore credibilità all’impegno di Levi’s.
CHI FINGE PER VENDERE
Come abbiamo detto la “conversione” può avvenire in qualsiasi momento e per diversi motivi.
A volte però non si tratta di veri cambiamenti ma di semplici di scelte di marketing fatte per sfruttare i trend del momento e colpire i consumatori meno consapevoli. È una dinamica piuttosto semplice:
1- Una certa tematica diventa di moda
2- Tutti ne parlano e ne vogliono parlare
3- Ammanto il mio prodotto di caratteristiche desiderabili legate alla tematica
4- Approfitto del trend per “propinare” il mio prodotto
Questo schema è ancora più evidente tra le generazioni più giovani che spesso affrontano il dibattito sociale con scarsa conoscenza e superficialità, lasciandosi guidare ciecamente dall’influencer di turno. Come dimostra il grafico di Buzzoole qui sotto, gli influencer sono delle figure primarie di riferimento per certe fasce d’età.
In questi casi però si nota in modo più palese l’incoerenza tra i comportamenti dell’azienda e la sua comunicazione del momento.
Un buon esempio può essere l’applicazione Vinted. Per sfruttare il trend dell’eco-sostenibilità (più in particolare del second-hand) l’azienda si promuove come un modo per “riciclare” l’abbigliamento che non si indossa più.
Nella pratica è un sistema che incoraggia il ricambio continuo di vestiti e quindi l’acquisto di capi sempre nuovi piuttosto che un consumo consapevole. Come se non bastasse, ogni vendita implica una spedizione… il pianeta ringrazia!
Al netto di queste considerazioni sembra che l’interesse per la sostenibilità sia solo un richiamo di marketing (specchietto per le allodole) per un target molto giovane e poco attento.
È evidente la contrapposizione tra il messaggio di Vinted e quello di Levis’, di cui abbiamo parlato prima.
Vinted: “compra pure quanti vestiti vuoi, tanto puoi liberartene facilmente e farci anche dei soldi”
Levi’s: “compra con attenzione e cerca di utilizzare i tuoi vestiti il più a lungo possibile per evitare sprechi”.
Quale dei 2 approcci vi sembra più sostenibile?
Se dal fashion passiamo al mondo beauty troviamo un altro esempio emblematico di marchio che cerca di cavalcare un trend per vendere di più. In questi giorni Somatoline è su tutti i media per dire alle donne che devono essere belle per fare un regalo a loro stesse. Il brand così si accoda al trend dell’empowerment femminile e dell’autostima.
Ma attenzione, Somatoline non dice alle donne che possono sentirsi belle, ma che devono essere belle.
E per farlo devono essere magre e senza cellulite, ossia conformarsi ai canoni di bellezza stabiliti dai media e dalla moda.
A dare ancora meno credibilità alla campagna c’è il fatto che Somatoline non si è mai distinto per qualche iniziativa legata al miglioramento dell’autostima nelle donne. Anzi, il marketing dell’azienda è sempre stato legato alle insicurezze riguardo il proprio aspetto fisico.
IL FAIL È DIETRO L’ANGOLO
Come abbiamo già detto, parlare di tematiche sensibili come parità di genere, sostenibilità ambientale, body positivity è sempre difficile. Sono argomenti estremamente complessi e, se usati per scopo di marketing, rischiano di diventare banali o peggio ancora di scatenare reazioni molto negative.
Anche le aziende che sono realmente impegnate in alcune di queste cause possono sbagliare la loro comunicazione.
Spesso succede perché la paura di restare indietro rispetto aglialtri (fear of missing out) porta a reagire con poca lucidità.
Negli ultimi giorni è successo a Decathlon, da sempre impegnato per la sostenibilità a dire il vero, che per cavalcare l’onda ecologista “dimentica” la mission dell’azienda. Un brand che “vuole creare voglia e rendere accessibile al maggior numero di persone il piacere e i benefici dello sport” gira uno spot che promuove la bici e il monopattino elettrici.
Ben vengano i mezzi di trasporto non inquinanti, ma nessuno dei due ha particolari benefici sportivi. Perché non promuovere la bici classica? Forse per una questione di moda?
Un’altra azienda che purtroppo ultimamente ha peccato di ingenuità nella sua comunicazione é Dove.
La campagna Self Esteem Project ha l’obbiettivo di invitare le persone, soprattutto i più giovani, a non essere “schiave” dei filtri e degli strumenti per la modifica delle foto. È stato anche girato un video promo intitolato The Selfie Look e sono stati creati materiali informativi da utilizzare nelle scuole per parlare di autostima, bullismo e dismorfismo digitale.
Fin qui tutto meraviglioso.
Purtroppo però, nel veicolare la campagna sui social in Italia, Dove è stata un po’ avventata nella scelta delle testimonial. Come hanno fatto notare vari utenti, di cui non riporteremo i commenti piccati, l’influencer Camihawke non è sembrata molto adatta al tipo di messaggio.
Il post che ha scelto per la campagna è stato criticato perché ritenuto banale nel copy e perché l’immagine usata non sembra priva di filtri. Probabilmente Dove ha fatto le sue scelte basandosi sulle vanity metrics piuttosto che su reale coincidenza di valori tra brand e influencer.
Se dal peccato di ingenuità episodico passiamo ad una precisa strategia di marketing che punta a vendere di più, il fail diventa quasi inevitabile.
Prendiamo come esempio il marchio di cosmetica Layla. L’azienda non risulta impegnata in programmi di sostegno o beneficenza a lungo termine, per lo meno non ve n’è traccia online.
Tuttavia nella comunicazione social degli ultimi mesi ha provato ad associarsi prima all’empowerment femminile, poi alle cause di gender, infine alla normalizzazione della disabilità. Peraltro con testimonial, ad esempio Rocco Siffredi e Fedez, che sono stati etichettati come inadatti da molti attivisti e consumatori.
In questo caso è evidente come la scelta di cavalcare un determinato trend sembri più opportunistica che genuina.
INFLUACTIVISM
Con questo termine, coniato recentemente negli USA, ci si riferisce a personaggi famosi sui social che si battono per una determinata causa. Sono persone che utilizzano i loro canali per approfondire tematiche importanti e che hanno creato delle community molto attive e coese.
Questi attivisti hanno avuto il merito di aver sdoganato anche argomenti scomodi e soprattutto quello di aver avvicinato il pubblico più giovane a temi di interesse comune. La generazione Z infatti, sente il bisogno di questo tipo di figure per rimanere aggiornata su cosa accade nel mondo e per comprendere meglio alcune tematiche.
L’attivismo però, oltre a coinvolgere e spingere alla riflessione fa anche vendere, MOLTO.
Se ne sono accorti i brand ma anche gli stessi influencer che, pur di rendersi più appetibili in questo senso, si riscoprono improvvisamente super impegnati in questa o quella causa sociale.
In questo caso l’attivismo è solo di facciata o performativo, come qualcuno lo ha definito. Parliamo di contenuti creati a tavolino per scopi puramente commerciali, non di certo per un nobile obiettivo.
È proprio qui che si annidano le insidie maggiori:
- I brand scegliendo il testimonial sbagliato rischiano di togliere forza al messaggio e danneggiare la causa (nonché la propria reputazione);
- Gli influencer finto/attivisti alla fine risultano superficiali e fanno brutte figure parlando di cose che non conoscono;
- Gli utenti ottengono informazioni poco approfondite e restano vittime di strategie di marketing ben mascherate.
Molto interessante e fruibile!
Sperando che se non risvegli in toto le coscienze, perlomeno pianti il seme del dubbio
Grazie